Paradiso, Purgatorio e Inferno
Parte terza della trilogia di Fakarava.
7 GIUGNO 2020
Domenica, in navigazione verso Papeete, 240 miglia che stiamo percorrendo veloci anche se andiamo piano. Questo accade quando il desiderio di navigare supera di gran lunga quello di rimanere a terra, sempre. Abbiamo calcolato la partenza ieri pomeriggio con la marea uscente dalla passe di Fakarava alle ore 16, per arrivare a Papeete con le luci del mattino del 8 giugno. In traversata, casualmente, sto vivendo il mio 63° compleanno, tre grandi regali già ricevuti; uno – l’inaspettata telefonata dei nostri figli che per ragioni di fuso anticipava di 12 ore il nostro, due – il fatto di essere qui con Cecilia in mezzo all’oceano, soli, tre – una giornata oceanica che riappacifica con il pianeta e d’incanto colloca armonia dove c’è disordine, dolcezza dove c’è ruvidità e calma dove c’è agitazione. Parlare di inferno oggi è meno facile di quando lo vivi, ma è anche vero che lasciare la penna a riposo quando il ricordo è vivo e forte aiuta poi a vedere le cose con distanza e maggior sprazzi di verità. Forse.
Quando si va per mare nonostante tutte le conoscenze, l’esperienza, le compartecipazioni digitali dei vari siti meteo o di navigazione, nulla possono se la natura decide di scombinare gli schemi. Così a volte accade a chi sta dentro la natura, come noi che andiamo per mare, o per chi va in montagna od attraversa il deserto o una foresta pluviale o gli incontaminati spazi del Canada o dell’Alaska. Entriamo tutti, per una ragione o per l’altra, dentro la natura, e ci convinciamo, pur portando sacro rispetto, di poter sapere quando e come può farci qualche sorpresa. Non è proprio così. Noi siamo convinti, e pur mettendo in conto che il colpo di coda può arrivare in ogni momento, in realtà non ce lo aspettiamo veramente, fin quando non accade, di colpo.
Il paradiso di un atollo in mezzo all’oceano, protetto dal reef che non permette alla furia del mare di entrare, sembra una condizione perfetta, e soprattutto molto sicura. Teoricamente in un atollo esistono luoghi sempre ridossati dal mare, se non dal vento, che passa anche dalle fessure, ma in pratica ogni atollo ha una zona sicura per i venti dominanti, laddove uomini ed animali hanno costruito i villaggi, ma c’è sempre un punto debole dove la natura impazzita può colpire. Fakarava è un atollo enorme, e quando si è nella parte nord est, ridossati perfettamente dai venti dominanti, si è più esposti quando il vento “gira” dai quadranti opposti, ovvero da sud-ovest. In questo caso, raro ma possibile, il lungo braccio di mare senza ostacoli per il vento dentro la laguna (oltre 30 miglia), che tecnicamente si chiama “Fetch” con fondali che passano dai 100, ai 40 metri a 10 metri verso il bordo di terra, dove il corallo comincia a riaffiorare, si creano le condizioni per alzare un mare ripido, nervoso, cattivo, che non può sfogarsi se non ribollendo e riversandosi sulle spiagge coralline. Il pomeriggio stava trascorrendo pigro perché perturbato da un cielo pesante, con piogge frequenti ed a tratti violente fin dal mattino. Sapevamo tutto. I modelli meteo avevano preannunciato una rotazione del vento da ovest, con possibili fenomeni temporaleschi, ma senza superare un forza 5, gestibile anche se ancorati vicino al corallo e con un incremento dell’onda. 20 barche circa, più o meno tutti esperti skipper, chi con 17 Sydney -Hobart alle spalle (una tra le regate più impegnative al mondo) chi con molte traversate oceaniche e chi con già un’esperienza del Pacifico, o chi come noi arriva dal Mediterraneo, noto come uno dei mari più difficili proprio per i cambi repentini delle condizioni meteo, trasformando un luogo sicuro in uno pericoloso. Qui alle Tuamotu ed in particolare a Fakarava non abbiamo scelta. Aspettare mettendo l’ancoraggio in sicurezza, ed in ogni caso stare pronti a partire per andare verso la laguna in caso di grave peggioramento. Apparentemente siamo tranquilli, ovvero abbiamo la competenza e la possibilità di gestire la situazione.
Da pigro e grigio però il cielo assume via via connotati non proprio tranquillizzanti, mentre nell’aria si respira una sensazione che le cose stanno evolvendo, anche rapidamente. Ma sono tranquillo, l’ancoraggio di Ariel, sebbene ad una trentina di metri dai coralli, è in 10 metri d’acqua, mezza sabbia corallina e qualche testa di corallo. 50 metri di catena da 13 mm di acciao ed una buona ancora. Sapevamo dell’incremento del vento, pertanto all’arrivo avevo testato la tenuta, portando motore in retro fino a 2000 giri, che per Ariel significano 40 nodi e più sulla prua. Fermi. Quindi non ero preoccupato per l’ancoraggio, ed in cuor mio avremmo assolutamente gestito un rinforzo previsto a 20 nodi ed oltre, anche se da sud. Però l’atmosfera cambiava molto rapidamente e facciamo tutti ritorno a bordo, a sistemare ciò che è già sistemato e ad aspettare.
La catena di una barca, con una buona ancora, è in grado di assorbire pressioni di vento molto sostenute. Già in Grecia avevamo sperimentato 56 nodi senza onda perchè ridossati da alte montagne, e senza nessun problema. A Fakarava bisogna fare i conti con il mare, che comincia a gonfiarsi già con 15 nodi da sud, carico di tutto il fetch libero. Vado a prua e con 15 nodi l’onda alza appena la generosa e solida prua di Ariel, alta 2 metri sul livello del mare. Decido comunque di rinforzare i baffi (due cime che si mettono per evitare che lo sforzo della catena si distribuisca solo sul salpaancore, ma ripartisca lo sforzo con le due bitte a prua). In condizioni normali ne metto una, direttamente collegata ad un gancio di acciaio. Qui mi premunisco di un seconod gancio di rispetto, e metto un’altra cima a sinistra. Fine e torno in pozzetto. 20 nodi. Il cielo peggiora ed il mare sembra ingrossarsi, si inizia a ballare un pò. Una danza sospetta. Decido di rinforzare i baffi, mettendone altri due, e torno a prua con due cime, una in Dynema 14 mm (il Dynema è forte come l’acciao, ma non elastica) ed una di ormeggio, intrecciata da 16 mm, che è più elastica. L’onda è aumentata ad un metro, ancora gestibile dalla prua, però mentre preparo per fissare i rinforzi, prima quella di dritta, poi dopo poco il baffo di sinistra, strattonati dall’onda e dal movimento della prua, si spezzano come grissini.
Bisogna lavorare senza farsi male, questo il primo grande segreto, quindi ci vuole calma, tanto l’ancoraggio tiene e non andremo a corallo. Però la catena prende strattoni pazzeschi ad ogni risalita e ridiscesa, tanto da perdere un paio di metri che il salpaancore non la trattiene. Fortunatamente c’è un fremo meccanico a vite che blocca tutto, pertanto lo blocco, solo che devo per forza mettere nuovi baffi. Facile perchè si fa senza rischiare, a catena sulla barca. Dynema a dritta e cima d’ormeggio, questa volta di 18 mm a sinistra, non ho con me altro dynema e devo andare a prenderlo in pozzetto, la cui andata e venuta comincia a diventare meno facile. Nel dubbio di avere la catena in un corallo che gli fa perdere l’elasticità, prendo il coraggio e lascio altri 5-6 metri, così i baffi lavorano sott’acqua, sfuttando un effetto antigravitario forse utile. Le porte dell’inferno si sono aperte.
Torno in pozzetto fradicio dalla pioggia che nel frattempo è arrivata torrenziale, ed infreddolito. Devo scaldarmi, cambiarmi e ritornare a prua a mettere dua baffi di dynema ad ulteriore protezione. Cecilia è impaurita, terrorizzata, e mi comunica che Milanto ha chiamato sul 68, il nostro canale, dicendo che una barca alla boa che ha mollato l’ha colpito pesantemente, mentre un’altra vicino a loro è finta sul corallo insieme ad un catamarano, disabitato, di francesi che inopportunamente si erano fermati a terra. Anemometro fisso a 45 nodi, raffiche 52, 55, onde di 2 metri. Sea Lover ha paura, è più indietro di noi e dice che l’ancora non tiene, o almeno così sembra a lui. In realtà a me sembra fermo, come noi. L’allarme di ancoraggio regolato sui 15 metri è zitto. Quando si ha da fare per la sicurezza si ha un percezione diversa di ciò che realmente sta accadendo, un vero inferno. Mi scaldo con una doccia bollente, mi cambio, compresa la cerata, più consistente, e mi preparo con giubbotto e cintura di sicurezza, per andare spero l’ultima volta a prua, quando uno schianto ci colpisce. Un rumore di ferraglia, improvviso quanto sinistro. “Cos’è stato?” mi chiede Cecilia? Non saprei, solo non vorrei mai fosse ciò che penso, mentre dieci centimetri alla volta riguadagno la prua. Il baffo di 18 mm ha ceduto come un filo di cotone, mentre il dynema ha tenuto, la catena ha divelto la sua sede del pulpito (acciaio di 5 mm) piegandola come un foglio di carta per arrestarsi alla bitta. In un attimo abbiamo perso una eventuale possibilità di fuga, ma soprattutto la catena sta distruggendo a colpi di mare il torello di teck della parte a dritta della prua. Molto difficile lavorare perchè bisogna aspettare l’attimo in cui cala leggermente la pressione tra un’onda e l’altra. In caduta la prua entra nell’acqua fino alle mie caviglie, per risalire per due metri, praticamente un ottovolante vero con balzi di 4 metri. Ma riesco a mettere la cima ad un anello della catena, anzi provo a metterne due, ma non è possibile perché vicine non avrebbe senso, poi il dynema tiene; poi filo ancora 4 metri di catena, di più non posso. La bitta si alleggerisce del peso della catena e lavora con le cime, ora in equilibrio con la sua sorella di sinistra. Fine. Di più non posso fare. Infatti scopriremo poi che una barca ha ceduto perchè il corpo morto aveva una cima non affidabile, ad un’altra si è spezzata la catena ed il catamarano era troppo vicino al corallo ed ha arato piano piano, ma nessuno era a bordo. Non penso minimamente di lasciare l’ormeggio ora, come hanno imprudentemente fatto alcuni, perché non sai mai come la catena si sia messa ad incastrarsi tra le teste di corallo, e memore che in condizioni di calma piatta, con la Ceci a prua, quando eravamo nel sud ci sono voluti 20 minuti di zig zag tra il corallo per spedarla.
In pozzetto comunichiamo con gli altri. Saorsa, la barca uguale alla nostra delle neozelandesi ha avuto lo stesso identico problema, solo che il freno del salpaancora non ha funzionato, i due baffi si sono strappati come a noi, e la catena usciva sferragliando e distruggendo via via la falchetta; è arrivata a fine catena, appesa alla cimetta che la tiene fissa alla chiglia. Un attimo per decidere di tagliarla, e filare per occhio come si dice, lasciando a mare ancora e catena e girovagando nella notte per la laguna ad evitare le teste di corallo. Matt di Influencer ha rotto 7 baffi prima di affidarsi solo alla catena del suo Dufour, che fortunatamente ha tenuto. 3 ore lunghe e terrificanti, poi il vento ha ceduto, portandosi ai previsti 15 nodi, una bonaccia… il buono è che come cala il vento nella laguna anche il mare si quieta, subito. Alla mattina splende un sole accecante, ci medichiamo le ferite, facciamo passare la catena sotto il bompresso per poter salpare; la Ceci dà un piccolo aiuto di lingua agli amici di Milanto con il francese che gli è andato addosso, peraltro gentilissimo, ed osserviamo tristissime due barche morte sul corallo di Fakarava, il Paradiso delle Tuamotu.
Ma andiamo avanti. Ora diretti di nuovo a Papeete per le dovute cure alle nostre case.
Alla prossima da Ariel
Paolo & Cecilia