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Il canale di Panama… e ciò che viene dopo

Postato su 13 Febbraio 2020 da Paolo Casoni

Canale di Panama – Lago Gatùn e tutto il resto
4 – 8 febbraio 2020
la notte si è rivelata un toccasana perché il transito del canale è spossante, con intensità emozionale elevata, pertanto coricarsi cullati dalla calma di un lago, sebbene infestato di coccodrilli, ci ha fatto bene.

Si parte alle 9 per raggiungere le chiuse di discesa verso il pacifico. Un salto nel nuovo per tutti noi, compreso l’attraversamento del lago, di 28 miglia marine, rigorosamente a motore, a 6 nodi. Mangrovie e fiordi verdi battuti dal vento ma senza onda, fino all’ultimo tratto, serpiginoso e stretto, scavato a mano per raggiungere le sempre più agognate acque dell’altro oceano. Alle 13 passiamo la prime chiusa, contraria alle precedenti; qua si scende per 9 metri in 3 mandate. La grossa nave (enorme) che ci accompagna ora è dietro, e sta a noi dettare il ritmo di uscita. La discesa è più semplice, forse perché è giorno, ma ci sembra davvero meno complicato. L’ultima chiusa è la più impegnativa per la forte corrente (3 nodi) che si crea per il mescolarsi delle acque dolci del lago con la salata dell’oceano, per cui il terzetto unito di noi piccoli natanti deve essere abile nel correre verso l’uscita senza farsi intraversare dalla corrente e dal vento, sempre sostenuto. In pochi minuti siamo in Pacifico, sleghiamo le cime che ci attanagliano al catamarano Domini e liberiamo Ariel verso nuove acque. Grazie al canale.

La storia: il canale di Panama

Furono i francesi i primi a pensare di poter unire l’atlantico con il pacifico pensando di sfruttare l’energia di un grande fiume per creare un lago artificiale con una diga, sfruttando il naturale estuario in Atlantico, per poi scavare un canale verso il Pacifico. Purtroppo la compagnia privata francese fallì clamorosamente, non tanto per la mancanza di fondi o di idee, ma per lo sterminio dei propri uomini dalle malattie trasmesse dalle zanzare. Il fallimento però diede speranza ad altri perchè le idee erano buone, pertanto il governo USA, giocando astutamente sul concetto di “libertà”, ovvero di stimolare i Panamensi che erano  al soldo dei Colombiani di rendersi liberi ed indipendenti da loro, fondando il loro proprio stato libero. IN cambio gli americani sarebbero intervenuti costruendo il canale di Panama, quello che abbiamo appena attraversato. L’astuto presidente Roosvelt riuscì ad ottenere l’usufrutto a tempo indeterminato del canale, aiutando il popolo panamense a trovare la propria indipendenza. Il canale si fece, e venne inaugurato nel 1914, ma la sua inaugurazione fu offuscata dalla imminente prima guerra mondiale. Seguirono decenni prosperosi di convivenza pacifica tra Americani e Panamensi, tanto che ancora oggi alcuni tassisti mostrano fieri le due bandiere affiancate.

Una storia però triste, perché nella prosperità e negli anni del boom dell’occidente tutto si incrinò. Correva l’anno 1964 ed  un manipolo di studenti panamensi si recò in terra USA, sebbene a Panama, quindi a casa loro,  chiedendo di issare le due bandiere affiancate, in segno di pace e condivisione, anche per porre fine alle importanti differenze tra i due popoli confinanti. Ci raccontava la guida che la sua famiglia abitava al confine tra il territorio “del canale” tutto made USA, e la Panama dei Panamensi; un alto funzionario panamense percepiva un salario pari a 1,5 dollari/ora, mentre una donna delle pulizie che varcava il confine e prestava servizio presso le ricche abitazioni degli americani percepiva 15 dollari/ora! Quando gli studenti universitari panamensi chiesero pace e giustizia, portando la loro bandiera nel territorio del canale, chiedendo ai loro pari di una scuola americana di issare le bandiere affiancate, fu risposto che non sarebbe mai stato possibile.

Da lì, la rivoluzione. E vinsero i Panamensi, sacrificando 21 vite di giovani, premonitori del ’68 europeo, per onore di dignità e giustizia.Da quella rivoluzione furono ridiscussi i contratti di Roosvelt, e si dovette arrivare al 1979 per garantire agli americani l’ultimo ventennio di proprietà. Dal 1999 i panamensi sono ritornati proprietari del loro canale, che dà lavoro a 20.000 persone ed è la più alta fonte di reddito del paese. Quest’anno si festeggia il ventennale. Oggi c’è anche un nuovo canale, più grande, con metodiche di attraversamento differenti, ma con la stessa ingegneria che decide l’apertura delle chiuse, le cui enormi porte sono oggi costruite in Italia.

Panama City

Abbiamo visitato il cuore di Panama City, una città conflittuale, dove albergano i financial center che fanno invidia a New York, ed il casco antiguo, dove si respira il ritmo del tempo che non c’è più, che però continua a pulsare forte nei muri, negli scorci verso l’oceano, nelle persone che credono in Panama, e colpisce l’idea di un sindaco Italiano di Panama City che ha evitato la distruzione del casco antiguo, salvaguardando invece la sua rinascita, facendo costruire una curiosa strada sul mare, a semicerchio, a circondare proprio il cuore della Panama vera, quella che ha una architettura coloniale,  la chiesa con l’altare in oro massiccio risparmiato dal pirata inglese Morgan dalla depredazione attorno al 1620 perché ingannato dalla astuzia dei panamensi che lo dipinsero di nero  in un dedalo di vicoli e piccole piazze dove l’acciottolato a mosaico continua a vincere i secoli.
Ormeggiamo a Playita Marina in attesa di Marianna, compagna di Margherita, per fare vela verso le isole delle Perle (Las Perlas), distanti una trentina di miglia, famose sia per la raccolta di perle, ma soprattutto perché là si fermavano i pirati a contare le ricchezze depredate in oro. Infatti faremo rotta per la Isla Contadora, (dove si contava) sede dell’ultimo briefing prima della partenza per le Galapagos prevista per il 12 febbraio.

Alla prossima dal TEAM ARIEL

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Il canale di Panama
Verso le Galapagos

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