La mia prima, volta:
Un titolo fuorviante, lo ammetto. Ma non ho trovato parole migliori per riassumere la storia che mi sento in dovere di raccontare.
Non è un aneddoto comune, perciò mi preme il desiderio di diffondere ciò che mi è accaduto, come un semplice viaggio mi ha profondamente trasformato.
All’incirca una manciata di mesi fa, mi sono ritrovata incastrata in un progetto enorme, ambizioso, spaventoso di primo acchito: attraversare l’Atlantico, sfidare l’infinito. Poi, tranquillamente, tornare indietro.
Mi pareva d’essere miserabilmente rimpicciolita. Sola attaccata a una banchina per mezzo di qualche cima sbriciolata, umida nell’acqua puzzolente e sotto una pioggia autunnale insopportabile. L’oceano era un miraggio, “impossibile”, mi dicevo. Il mio umore uggioso contrastava con l’atmosfera elettrica dell’equipaggio, sempre più frenetica ed esaltata con l’avvicinarsi della partenza.
Ero sempre occupata: smontavano e rimontavano, avvitavano ingranaggi, lustravano ogni superficie – divertiti spensierati chiacchieravano e io, sola, sempre più insignificante. Mi stavano rimettendo a nuovo, ma mi sentivo desolatamente vecchia. Fatico ancora oggi a comprenderne i motivi: come può un’imbarcazione dal nome altisonante, l’aspetto elegante, robusta, famosa come me intimorirsi davanti all’oceano? Io, progettata per affrontarlo, impaurita? Abituata alla navigazione, alla fatica, alle condizioni più imprevedibili, terrorizzata? Loro, invece, i marinai non mostravano alcuna traccia d’ansia. Paolo, il capitano, dirigeva la preparazione. Con ferma decisione distribuiva gli incarichi e studiava rotte, meteorologia, cambusa, documenti. “Come se l’oceano fosse prevedibile”, brontolavo.
Ero talmente incupita clic il mio umore ha persino influito sulla mia prestanza fisica: ho costretto tutto l’equipaggio, a causa della mia egoistica ansia, a posticipare la partenza per colpa di un piccolo guasto. Questo avvenimento avrebbe dovuto spingermi a riflettere, per tentare di risollevarmi dal mare di ceneri in cui ero sprofondata e tenere testa al mio nome, al mio ruolo, evitando di deludere nuovamente il capitano. Invece, non appena tuffati nell’oceano, le nubi che volteggiavano tremende nella mia mente da mesi si sono tramutate in una reale, orribile tempesta. Potevo scorgere gli sguardi negli occhi dell’equipaggio: barlumi di audacia e adrenalina mescolati a sconvolgimento, ma mai nessuno che fosse scoraggiato nonostante le vicissitudini di una partenza che avrebbe dovuto svolgersi con tranquillità. È grazie a loro, Paolo, Fabio, Marco e Cecilia, difatti, se sono riuscita a ritrovare vigore, a provare l’antica serenità della vela non appena in armonia con gli elementi, immersi nel cuore della terra – smarriti, ma nel posto giusto.
Celebrare le proprietà terapeutiche della natura probabilmente apparirà prevedibile, ma la potenza dell’impatto ricevuto è stata talmente travolgente da scavalcare qualunque banalità.
Per la prima volta, il tempo ha realmente perso ogni valore. Finalmente non esisteva più alcuna quotidianità tediosa, poco originale, ovvia. La vita, per la prima volta, protagonista.
È complicato descrivere una tale sensazione di libertà, una particolare serenità diffusa come un balsamo in ogni angolo. In poche parole, la navigazione si è presa tutto, si è imposta come stile di vita, ci ha punzecchiati nei punti dolenti e costretti alla riflessione – pivelli, credevamo di conoscere il mare. L’oceano non si può prevedere, e su questo avevo ragione.
Procedevamo lenti, accompagnati dal vento, abbracciati dall’acqua – nient’altro. Gli elementi scandivano il ritmo delle giornate, e in totale armonia seguivamo il movimento delle onde, senza alcuna preoccupazione superflua. Un’orchestra perfetta, una musica sinuosa. Era impossibile non lasciarsi trascinare, e inimmaginabile come ci saremmo sentiti frastornati una volta terminato lo spettacolo. Ancora con le ultime note nelle orecchie – ipnotizzati, siamo approdati dall’altra parte dell oceano. Nonostante le incombenze pratiche – i guasti, le vele scucite, la lavatrice sempre straripante e il frigorifero vuoto – ognuno di noi bramava la tranquillità dell’Atlantico. Dopo aver imparato il silenzio, dimenticato la fretta e vissuto all’insegna delle parole e dei pensieri, tornare ai cellulari trillanti e ai meccanici sudaticci è stato più complesso del previsto.
E forse, riflettendoci, non sono ancora riuscita a guarire dal colpo infertomi. È come se avessi visitato il paradiso, ma poi nel bel mezzo della visita mi fossi svegliata di soprassalto. L’unica differenza è che conosco l’indirizzo, e – sempre che i miei desideri siano in sintonia con quelli del capitano – posso farvi ritorno a breve.
E serenamente posso affermare con certezza che accadrà: cominciano già a bussare i primi tecnici ed elettricisti, e noto che a Paolo brillano furbamente gli occhi quando domandano quale sarà la prossima meta…
Matilde Casoni
(tratto dal libro “ATLANTICO. ANDATA E RITORNO” di Paolo Casoni).